Everest - 2010
EVEREST 2010 aveva come obiettivo di raggiungere, attraverso la parete nord, la vetta dell’Everest (8848 m) senza l’ausilio dell’ossigeno. Sinceramente non è mai stata nei miei programmi alpinistici, ma sicuramente essendo la montagna più alta del globo ha sempre suscitato "un non so che” di affascinante nei miei sogni. "L’occasione fa l’uomo ghiotto”, così dicono i grandi saggi, in effetti, seduti ad un tavolo, io e Abele, ci siamo confessati e in noi è balenata l’idea di intraprendere questa spedizione, con il piacere di stare in ottima compagnia, tra professionisti, facendo soprattutto quello che ci piace, andare per Montagne, con lo spirito di due amici, con l’impegno e la determinazione di sempre.
La nostra squadra era composta, oltre che da noi due, da un nostro caro amico, compagno di tante avventure, Silvio "Gnaro” Mondinelli e da Michele Enzio, guida alpina di Alagna. Cosa dire di più? I presupposti per un’ottima riuscita della spedizione c’erano, e in effetti si sono realizzati. Siamo partiti dall’Italia il 31 marzo 2010 destinazione Kathmandu - Nepal, per poi trasferirci, io e Abele, qualche giorno in Tibet a visitare la città di Lhasa, ricca di innumerevoli siti di inestimabile valore artistico e culturale, Silvio e Michele, invece, hanno optato per proseguire il viaggio, insieme ai cuochi, via terra fino al Campo Base dell’Everest.
Finalmente il giorno 10 aprile, con la Jeep, siamo arrivati al Campo Base a 5200 m, dove c’erano già parecchie spedizioni, oltre ai nostri compagni di avventura che avevamo lasciato a Kathmandu. La vista di questa montagna, che fino a quel momento avevo solo visto in foto o in televisione, ma della quale avevo letto parecchie storie ed aneddoti non sempre positivi e a lieto fine, mi ha lasciato a bocca aperta. Non è stato difficile rendermi conto della sua immensità. Sono rimasto immobile ad ammirarla come colui che venera una dea e le si avvicina con grazia e armonia. La moltitudine di tende colorate piazzate sulla morena e le numerose persone che animano il campo base sono altri aspetti che rendono particolare questa montagna. Le mie precedenti spedizioni mi hanno sempre portato alla base di splendidi 8000 poco frequentati, angusti e forse quasi desolanti. Sovente capitava di trovarmi solo con i miei compagni di avventura al Campo Base e questa grande differenza subito mi ha lasciato un po’ perplesso, ma poi con il passare dei giorni, nelle lunghe attese, ho conosciuto persone fantastiche, che come me, erano lì per coronare un sogno: salire l’Everest! Ognuno, fortunatamente, è libero di decidere come raggiungere il proprio obiettivo, la mia scelta, condivisa ovviamente anche dai miei tre compagni, è stata di tentare la salita in modo pulito e naturale senza far uso di ossigeno supplementare.
Dopo i primi 10 giorni di spedizione serviti puramente per la logistica, a quota 6400 m è iniziata una seconda fase dove ci siamo preparati fisicamente per acclimatare il fisico all’alta quota. In questo periodo abbiamo piazzato il Campo 1 al Colle Nord a 7000 m, portando tutto il nostro materiale d’alta quota, compresi i viveri indispensabili per la sopravvivenza nei giorni di acclimatamento. Dopo una notte passata al Campo 1, tutt’insieme siamo saliti al Campo 2. In questo secondo step mi sentivo addosso una stanchezza inverosimile, tanto da rendermi conto che rispetto ai miei compagni di viaggio, rendevo la metà. Purtroppo in questa seconda fase della spedizione, il mio fisico non era al top, un grosso problema alle vie respiratorie mi ha obbligato a una scelta difficilissima: quella di scendere e ossigenarmi a quote più basse, abbandonando temporaneamente i miei compagni di avventura. Ritengo sia stata una scelta non solo obbligata, ma altresì responsabile. Non avrei mai messo a repentaglio la mia vita, così come quella dei ragazzi. Sono sceso al campo base, per poi affittare una Jeep con autista e spingermi 200 km all’interno del Tibet, alla ricerca di un paese abitato e soprattutto per riuscire a respirare un pò più di ossigeno. Per sette giorni ho alloggiato in una modesta camera a New Tingri, cercando di curarmi con antibiotici. Dannata influenza! La voglia di riscatto però, era troppo forte e non potevo mancare a questa grande occasione che avrebbe conferito un significato particolare alla mia vita, di fronte a così tanta magnificenza. Nel frattempo i miei compagni sono saliti ai campi alti preparando il Campo 2 a 7600 m e terminando così il loro acclimatamento. Da qui la mia più grande difficoltà psicologica: dopo una situazione così grave ero in grado di continuare la spedizione? In effetti ero combattuto perché in quei giorni mi sentivo più vicino all’aereo che mi avrebbe riportato a casa che al campo base - forse il destino voleva che tornassi senza provare una volta la vetta. Devo dire grazie alle persone che in quei giorni mi hanno confortato, anche solo per telefono e che mi hanno fatto reagire per continuare la mia avventura. Il 30 Aprile ero nuovamente al Campo base avanzato con il fisico ossigenato ed il motore che girava a pieno regime. Già dalle prime salite fino al campo 1 sembrava tutto più facile, la testa ha cominciato a recuperare morale e determinazione, soprattutto dopo aver passato da solo una notte al Campo 2 in una giornata di vento e neve. Al mio ritorno al Campo base avanzato sembravo un altro uomo, pronto ad affrontare l’Everest con determinazione. Dopo un periodo di sette giorni di tempo perturbato, trascorso al Campo Base a quota 5200 m, le previsione meteorologiche davano buona la giornata del 23 maggio per la salita alla vetta dell’Everest.
Il 20 maggio siamo partiti per il Campo 1, lì la notizia confermata dai centri meteorologici della Svizzera, che per noi che non volevamo utilizzare l’ossigeno la giornata migliore era il 24 maggio.
Si preannunciavano temperature che potevano aggirarsi intorno ai -20° -25°, ideali per salire indenni la vetta. Pertanto, abbiamo deciso di restare ancora un giorno fermi al Campo 1 al Colle Nord. Il 22 maggio siamo saliti al Campo 2, 5-6 ore di duro cammino fianco a fianco con gli alpinisti che, con l’ossigeno sulla schiena o addirittura nel sacco dello sherpa personale, aggredivamo metro per metro l’impervia salita. Ero curioso di vedere come gli altri alpinisti equipaggiati di maschere d’ossigeno fantascientifiche, da guerre stellari, affrontavano con estrema difficoltà la lunga e ripida spalla del versante Nord.
Solo due parole sull’etica di affrontare queste montagne. Credo che l’utilizzo dell’ossigeno supplementare e di qualsiasi altro mezzo artificiale, non dia diritto a nessun uomo di reputarsi orgoglioso o addirittura conquistatore di un primato, l’etica di come salire le proprie montagne è dentro ognuno di noi e a mio avviso se siamo in grado di salirle con le nostre forze e capacità bene, se no come direbbe un mio amico: «torna da dove sei arrivato e, se sarai in grado, preparati e riprovaci».
Tornando alla spedizione, il 22 maggio siamo arrivati tutti molto stanchi al Campo 2. Il 23 maggio in tarda mattinata, siamo stati chiamati a una decisione epica: salire senza tenda e sacco a pelo, per essere più leggeri e veloci possibile, cercando un riparo di ripiego per le poche ore che ci separavano dal buio assoluto alla nostra partenza, prevista per le due del mattino del 24 maggio. Così è stato, quella sera arrivati verso le 18 al Campo 3 a quota 8200 m, ci siamo mossi per trovare un riparo, individuato in un telo interno di una tenda abbandonata da tempo, considerate le pessime condizioni. Tecnicamente di scarso utilizzo, ma di grande aiuto psicologico. Vi posso assicurare che in quelle condizioni estreme, avere un "tetto” sulla testa, anche se solo lontanamente poteva sembrare tale, rincuorava gli animi anche quelli più esagitati. Comunque da subito ci siamo accorti che quel riparo era veramente piccolo e soprattutto in posizione incredibile in un pendio inclinato, ancorato a due cordini esterni. Alle 23 era fissata la partenza delle spedizioni commerciali che utilizzavano sherpa e ossigeno. Fu proprio in quell’istante che presi la decisione di spostarmi in una tenda vicina a noi, con il permesso di due amici messicani. Questa decisione sfociò in un tripudio da parte dei miei compagni che finalmente poterono accendere il fornello per farsi un buon tè caldo. Nel frattempo le ore passano e le due del mattino sono arrivate velocemente. Si parte, fuori della tenda nevica: "mio Dio che si fa?” Le temperature erano ideali, ma la visibilità era scarsa. Nessuno di noi nascondeva la paura, compagna di viaggio nelle nostre importanti ascese, ma nello stesso tempo dagli sguardi impavidi si carpiva la determinazione di chi ha solo un obiettivo: la vetta. Alle prime luci del mattino eravamo a quota 8500 m sulla spalla che porta alla cima a 8848 m. Da questo punto in poi, la parte più tecnica dell’Everest, tre km di cresta e tre step di roccia da superare. Dietro di noi una piccola lucina di una frontale, da subito abbiamo notato che chi si avvicinava velocemente era Gerlinde Kaltenbrunner, una ragazza eccezionale con molta esperienza di montagne oltre gli ottomila metri. Conosciuta al campo base, era arrivata all’Everest con suo marito con l’intenzione di salire l’Horben couloir, successivamente il cambio di programma, visto l’impegno e le difficoltà troppo sostenute. Dagli 8500 m in poi il ritmo è diventato veramente lento, non era concesso sbagliare, passato il terzo step comincia la fase finale della salita ancora una rampa di neve e ghiaccio per poi attraversare delle rocce. Non si riesce a intravedere la fine quando all’improvviso, nella nebbia, "Gnaro" esclama: "la vetta è qui vicina, adesso tocca ai più giovani andare avanti”. Negli ultimi metri decisivi io e Michele davanti e gli altri a seguire. La cima, siamo in vetta, increduli nella nebbia con la neve che cade sulla nostra testa, tocchiamo con mano quello che fino a pochi minuti prima era quasi solo un sogno. Le foto di rito su un mucchio di bandierine con le preghiere tibetane come fosse una profezia, ci abbracciamo, quasi con le lacrime sul viso, qualche minuto e poi si scende. La discesa forse è la parte più drammatica di tutta la spedizione. Molti pensano che una volta conquistata la cima, sia tutto finito mentre invece non bisogna mai perdere la concentrazione e affrontare la discesa con la stessa tenacia e determinazione della salita, almeno fino al Campo Base. Scendendo incontriamo un alpinista e due sherpa. L’alpinista presenta evidenti sintomi di grave edema, ma vista l’impossibilità concreta di aiutarlo decidiamo di passarlo e proseguire per la nostra strada. Un forte vento e una tempesta di neve si abbatte su di noi, l’unica cosa da fare è stare più uniti possibile. "Gnaro” si ferma e aspettiamo Abele che si era attardato. Proseguiamo insieme più vicini, lui davanti, gli altri centrali e io per ultimo, fino ad arrivare al Campo 3. Ovviamente per noi la necessità è di scendere più velocemente possibile visto che a quel campo non avevamo nulla, né tende, né sacchi a pelo e né viveri. Alle otto di sera è notte fonda, ma riusciamo comunque a scorgere la nostra tendina al Campo 2, fuori dal pericolo, sotto la linea della morte. Il giorno dopo la discesa al Campo Base, l’abbraccio dei nostri due cuochi che per quattro giorni hanno vissuto con la testa rivolta verso l’alto sperando nel nostro ritorno…
La spedizione finisce con l’arrivo al Campo Base e qui mi attende una grande sorpresa: mia moglie Barbara in compagnia di un compagno di tante avventure e amico da sempre, la guida alpina Adriano Favre. Con loro altri valdostani in viaggio per visitare l’altopiano del Tibet. Forse una delle emozioni più intense di tutto il mio viaggio è stato riabbracciare mia moglie, dopo tanti giorni lontano da casa. Il ritorno è sempre un momento forte e intenso, ci si rende conto di quanto sono importanti gli affetti familiari, eppure la vita è lì, nel suo nascondere le cose più "alte in mezzo al quotidiano” .
La nostra squadra era composta, oltre che da noi due, da un nostro caro amico, compagno di tante avventure, Silvio "Gnaro” Mondinelli e da Michele Enzio, guida alpina di Alagna. Cosa dire di più? I presupposti per un’ottima riuscita della spedizione c’erano, e in effetti si sono realizzati. Siamo partiti dall’Italia il 31 marzo 2010 destinazione Kathmandu - Nepal, per poi trasferirci, io e Abele, qualche giorno in Tibet a visitare la città di Lhasa, ricca di innumerevoli siti di inestimabile valore artistico e culturale, Silvio e Michele, invece, hanno optato per proseguire il viaggio, insieme ai cuochi, via terra fino al Campo Base dell’Everest.
Finalmente il giorno 10 aprile, con la Jeep, siamo arrivati al Campo Base a 5200 m, dove c’erano già parecchie spedizioni, oltre ai nostri compagni di avventura che avevamo lasciato a Kathmandu. La vista di questa montagna, che fino a quel momento avevo solo visto in foto o in televisione, ma della quale avevo letto parecchie storie ed aneddoti non sempre positivi e a lieto fine, mi ha lasciato a bocca aperta. Non è stato difficile rendermi conto della sua immensità. Sono rimasto immobile ad ammirarla come colui che venera una dea e le si avvicina con grazia e armonia. La moltitudine di tende colorate piazzate sulla morena e le numerose persone che animano il campo base sono altri aspetti che rendono particolare questa montagna. Le mie precedenti spedizioni mi hanno sempre portato alla base di splendidi 8000 poco frequentati, angusti e forse quasi desolanti. Sovente capitava di trovarmi solo con i miei compagni di avventura al Campo Base e questa grande differenza subito mi ha lasciato un po’ perplesso, ma poi con il passare dei giorni, nelle lunghe attese, ho conosciuto persone fantastiche, che come me, erano lì per coronare un sogno: salire l’Everest! Ognuno, fortunatamente, è libero di decidere come raggiungere il proprio obiettivo, la mia scelta, condivisa ovviamente anche dai miei tre compagni, è stata di tentare la salita in modo pulito e naturale senza far uso di ossigeno supplementare.
Dopo i primi 10 giorni di spedizione serviti puramente per la logistica, a quota 6400 m è iniziata una seconda fase dove ci siamo preparati fisicamente per acclimatare il fisico all’alta quota. In questo periodo abbiamo piazzato il Campo 1 al Colle Nord a 7000 m, portando tutto il nostro materiale d’alta quota, compresi i viveri indispensabili per la sopravvivenza nei giorni di acclimatamento. Dopo una notte passata al Campo 1, tutt’insieme siamo saliti al Campo 2. In questo secondo step mi sentivo addosso una stanchezza inverosimile, tanto da rendermi conto che rispetto ai miei compagni di viaggio, rendevo la metà. Purtroppo in questa seconda fase della spedizione, il mio fisico non era al top, un grosso problema alle vie respiratorie mi ha obbligato a una scelta difficilissima: quella di scendere e ossigenarmi a quote più basse, abbandonando temporaneamente i miei compagni di avventura. Ritengo sia stata una scelta non solo obbligata, ma altresì responsabile. Non avrei mai messo a repentaglio la mia vita, così come quella dei ragazzi. Sono sceso al campo base, per poi affittare una Jeep con autista e spingermi 200 km all’interno del Tibet, alla ricerca di un paese abitato e soprattutto per riuscire a respirare un pò più di ossigeno. Per sette giorni ho alloggiato in una modesta camera a New Tingri, cercando di curarmi con antibiotici. Dannata influenza! La voglia di riscatto però, era troppo forte e non potevo mancare a questa grande occasione che avrebbe conferito un significato particolare alla mia vita, di fronte a così tanta magnificenza. Nel frattempo i miei compagni sono saliti ai campi alti preparando il Campo 2 a 7600 m e terminando così il loro acclimatamento. Da qui la mia più grande difficoltà psicologica: dopo una situazione così grave ero in grado di continuare la spedizione? In effetti ero combattuto perché in quei giorni mi sentivo più vicino all’aereo che mi avrebbe riportato a casa che al campo base - forse il destino voleva che tornassi senza provare una volta la vetta. Devo dire grazie alle persone che in quei giorni mi hanno confortato, anche solo per telefono e che mi hanno fatto reagire per continuare la mia avventura. Il 30 Aprile ero nuovamente al Campo base avanzato con il fisico ossigenato ed il motore che girava a pieno regime. Già dalle prime salite fino al campo 1 sembrava tutto più facile, la testa ha cominciato a recuperare morale e determinazione, soprattutto dopo aver passato da solo una notte al Campo 2 in una giornata di vento e neve. Al mio ritorno al Campo base avanzato sembravo un altro uomo, pronto ad affrontare l’Everest con determinazione. Dopo un periodo di sette giorni di tempo perturbato, trascorso al Campo Base a quota 5200 m, le previsione meteorologiche davano buona la giornata del 23 maggio per la salita alla vetta dell’Everest.
Il 20 maggio siamo partiti per il Campo 1, lì la notizia confermata dai centri meteorologici della Svizzera, che per noi che non volevamo utilizzare l’ossigeno la giornata migliore era il 24 maggio.
Si preannunciavano temperature che potevano aggirarsi intorno ai -20° -25°, ideali per salire indenni la vetta. Pertanto, abbiamo deciso di restare ancora un giorno fermi al Campo 1 al Colle Nord. Il 22 maggio siamo saliti al Campo 2, 5-6 ore di duro cammino fianco a fianco con gli alpinisti che, con l’ossigeno sulla schiena o addirittura nel sacco dello sherpa personale, aggredivamo metro per metro l’impervia salita. Ero curioso di vedere come gli altri alpinisti equipaggiati di maschere d’ossigeno fantascientifiche, da guerre stellari, affrontavano con estrema difficoltà la lunga e ripida spalla del versante Nord.
Solo due parole sull’etica di affrontare queste montagne. Credo che l’utilizzo dell’ossigeno supplementare e di qualsiasi altro mezzo artificiale, non dia diritto a nessun uomo di reputarsi orgoglioso o addirittura conquistatore di un primato, l’etica di come salire le proprie montagne è dentro ognuno di noi e a mio avviso se siamo in grado di salirle con le nostre forze e capacità bene, se no come direbbe un mio amico: «torna da dove sei arrivato e, se sarai in grado, preparati e riprovaci».
Tornando alla spedizione, il 22 maggio siamo arrivati tutti molto stanchi al Campo 2. Il 23 maggio in tarda mattinata, siamo stati chiamati a una decisione epica: salire senza tenda e sacco a pelo, per essere più leggeri e veloci possibile, cercando un riparo di ripiego per le poche ore che ci separavano dal buio assoluto alla nostra partenza, prevista per le due del mattino del 24 maggio. Così è stato, quella sera arrivati verso le 18 al Campo 3 a quota 8200 m, ci siamo mossi per trovare un riparo, individuato in un telo interno di una tenda abbandonata da tempo, considerate le pessime condizioni. Tecnicamente di scarso utilizzo, ma di grande aiuto psicologico. Vi posso assicurare che in quelle condizioni estreme, avere un "tetto” sulla testa, anche se solo lontanamente poteva sembrare tale, rincuorava gli animi anche quelli più esagitati. Comunque da subito ci siamo accorti che quel riparo era veramente piccolo e soprattutto in posizione incredibile in un pendio inclinato, ancorato a due cordini esterni. Alle 23 era fissata la partenza delle spedizioni commerciali che utilizzavano sherpa e ossigeno. Fu proprio in quell’istante che presi la decisione di spostarmi in una tenda vicina a noi, con il permesso di due amici messicani. Questa decisione sfociò in un tripudio da parte dei miei compagni che finalmente poterono accendere il fornello per farsi un buon tè caldo. Nel frattempo le ore passano e le due del mattino sono arrivate velocemente. Si parte, fuori della tenda nevica: "mio Dio che si fa?” Le temperature erano ideali, ma la visibilità era scarsa. Nessuno di noi nascondeva la paura, compagna di viaggio nelle nostre importanti ascese, ma nello stesso tempo dagli sguardi impavidi si carpiva la determinazione di chi ha solo un obiettivo: la vetta. Alle prime luci del mattino eravamo a quota 8500 m sulla spalla che porta alla cima a 8848 m. Da questo punto in poi, la parte più tecnica dell’Everest, tre km di cresta e tre step di roccia da superare. Dietro di noi una piccola lucina di una frontale, da subito abbiamo notato che chi si avvicinava velocemente era Gerlinde Kaltenbrunner, una ragazza eccezionale con molta esperienza di montagne oltre gli ottomila metri. Conosciuta al campo base, era arrivata all’Everest con suo marito con l’intenzione di salire l’Horben couloir, successivamente il cambio di programma, visto l’impegno e le difficoltà troppo sostenute. Dagli 8500 m in poi il ritmo è diventato veramente lento, non era concesso sbagliare, passato il terzo step comincia la fase finale della salita ancora una rampa di neve e ghiaccio per poi attraversare delle rocce. Non si riesce a intravedere la fine quando all’improvviso, nella nebbia, "Gnaro" esclama: "la vetta è qui vicina, adesso tocca ai più giovani andare avanti”. Negli ultimi metri decisivi io e Michele davanti e gli altri a seguire. La cima, siamo in vetta, increduli nella nebbia con la neve che cade sulla nostra testa, tocchiamo con mano quello che fino a pochi minuti prima era quasi solo un sogno. Le foto di rito su un mucchio di bandierine con le preghiere tibetane come fosse una profezia, ci abbracciamo, quasi con le lacrime sul viso, qualche minuto e poi si scende. La discesa forse è la parte più drammatica di tutta la spedizione. Molti pensano che una volta conquistata la cima, sia tutto finito mentre invece non bisogna mai perdere la concentrazione e affrontare la discesa con la stessa tenacia e determinazione della salita, almeno fino al Campo Base. Scendendo incontriamo un alpinista e due sherpa. L’alpinista presenta evidenti sintomi di grave edema, ma vista l’impossibilità concreta di aiutarlo decidiamo di passarlo e proseguire per la nostra strada. Un forte vento e una tempesta di neve si abbatte su di noi, l’unica cosa da fare è stare più uniti possibile. "Gnaro” si ferma e aspettiamo Abele che si era attardato. Proseguiamo insieme più vicini, lui davanti, gli altri centrali e io per ultimo, fino ad arrivare al Campo 3. Ovviamente per noi la necessità è di scendere più velocemente possibile visto che a quel campo non avevamo nulla, né tende, né sacchi a pelo e né viveri. Alle otto di sera è notte fonda, ma riusciamo comunque a scorgere la nostra tendina al Campo 2, fuori dal pericolo, sotto la linea della morte. Il giorno dopo la discesa al Campo Base, l’abbraccio dei nostri due cuochi che per quattro giorni hanno vissuto con la testa rivolta verso l’alto sperando nel nostro ritorno…